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Piani sequenza: eccone 3, i migliori


I protagonisti di Birdman
Locandina di Birdman

Da quando The birdman, L’imprevedibile virtù dell’ignoranza, è uscito nelle sale, facendo incetta di Oscar (miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura e miglior fotografia), non si fa altro che parlare di Piani Sequenza.


Sembra, infatti, che il film di Alejandro González Iñárritu sia fatto da un’unica inquadratura, ma non è così.

In realtà le inquadrature sono fuse insieme in modo impercettibile (per esempio quando la macchina da presa sale per inquadrare il cielo e poi torna giù per seguire i personaggi).

L’effetto finale ci fa scivolare nelle vite dei protagonisti seguendoli tra corridoi, camerini, vie cittadine, dandoci l’impressione che tutto avvenga lì sotto i nostri occhi.

Ma facciamo un passo indietro. Cos’è il piano sequenza?

Il piano sequenza è una tecnica cinematografica che consiste nel girare un’intera sequenza senza stacchi. Non basta un’inquadratura molto lunga per avere un PS (Piano Sequenza) è necessario che questa inquadratura racchiuda in sé tutta la durata del segmento narrativo e non faccia parte di una sequenza più ampia.

Per attuare una tecnica del genere occorrono delle maestranze preparate e degli attori bravi, anzi bravissimi. Basta un piccolo intoppo tecnico, un rumore fuori scena, un’incertezza attoriale che bisogna ripetere l’intero lavoro da capo.

Tra i primi a studiare i risvolti nella percezione dell'uso di questa tecnica cinematografica, c'è il critico francese André Bazin che nel 1948 scrive un saggio intitolato Cos'è il cinema (in particolare dedica a questo tema il capitolo Il montaggio proibito) e analizza le potenzialità della tecnica nella percezione della visione dello spettatore.

Locandina originale del film di "Nodo alla gola"
Locandina di Rope. Fonte: internet

Tutto ha inizio, nel 1948, con The rope (in italiano, Nodo alla gola) di Alfred Hitchcock.

Il regista inglese è da poco sbarcato in America e vuole fare un esperimento: girare un film senza stacchi. Hitchcock deve fare, però, i conti con la tecnologia che all’epoca non lo supporta. Ha a disposizione bobine con una pellicola dalla durata ben precisa: tutte le riprese devono durare al massimo 10 minuti, perché il tempo della durata di proiezione di un rullo è di 300 metri di pellicola.

Ha bisogno, quindi, di fare ben 11 stacchi per permettere il cambio di bobina, ma non abbandona l’idea di non spezzare la sensazione di continuità nel tempo e nello spazio.

Allora ecco l’idea: basta far passare un personaggio davanti l'obiettivo della mdp (macchina da presa), oscurando l'immagine per poi farlo ripartire dalla stessa posizione. L’inquadratura scura rende il passaggio quasi invisibile. Il regista inglese decide così di camuffare gli stacchi. Tutti o quasi.

James Stewart in una scena di "Nodo alla gola"
James Stewart. Fonte: Internet

Un cambio di inquadratura viene invece evidenziato. Nel momento in cui il professore Cadel (James Stewart) comprende ciò che sta accadendo, la mdp stacca su di lui in primo piano, come si vede nella foto qui in alto.

Questo punto abilmente pensato dal regista, è l’occasione per far comprendere allo spettatore il pensiero del protagonista, evidenziandone lo sguardo e l’espressione. Un controcampo nel momento giusto permette la visualizzazione dell'inizio del ragionamento del professor Cadel, che proprio in quel punto passa dall’essere ignaro a nutrire i primi sospetti sul misfatto.

Schema dei movimenti di macchina del film di "Rope"
Schema dei movimenti di macchina del film di "Rope"

Il set, come si vede in questa immagine, era progettato con pareti mobili e arredamento su rotaie che venivano tolti e rimessi al passaggio della cinepresa. Il pavimento era diviso in settori numerati per far sapere a tutti dove sarebbe passata la m.d.p.

Nel suo libro Il cinema secondo Hitchcock, Truffaut domanda come sia stato possibile fare tutti questi spostamenti nel silenzio e registrare il suono in presa diretta.

Hitchcock risponde che aveva fatto costruire un pavimento apposta, ma non fu quello il principale problema e analizza tutte le criticità:

1. il colore (usato da Hitchcock per la prima volta proprio in questo film);

2. la scenografia della città (costruita curva proprio per rispettare la prospettiva secondo le varie posizioni che avrebbe raggiunto la mdp);

3. la presenza delle nuvole (mosse in un modo a dir poco rocambolesco nei momenti in cui erano fuori inquadratura);

4. la luce, che ha rappresentato il problema più grande.

L'azione, infatti, inizia nel tardo pomeriggio alle 19,30 quando è ancora giorno, e termina quando ormai è notte alle 21,15, seguendo, quindi, tutto l’arco del tramonto.

Niente male per l'esordio con il colore!

Truffaut sostiene che questo film sia la realizzazione di un sogno: "ogni regista deve accarezzare in un certo periodo della sua vita, il sogno di poter legare le cose in modo da ottenere un solo movimento".

Hitchcock non sembra essere dello stesso parere perché per tutta l'intervista definisce la sua opera prima come "un pasticcio", poi "un'idea un po' folle" e "completamente senza senso" e infine "una esperienza che si può scusare", basta non ripeterla!

Perché un parere così drastico? Hitchcock è per il decoupage classico (in opposizione a Bazin) e crede nel montaggio.

1958, Infernale Quinlan. Orson Wells gira un film con una scena iniziale che diventa da antologia.

La mdp si muove seguendo i personaggi nella notte, presentando l’ambiente, preparando gli elementi della situazione iniziale per far nascere curiosità immediata nello spettatore: cosa è stato messo in quella macchina? Sembra una bomba.

È una scena notturna di grande tensione emotiva che si svolge al confine tra Messico e Stati Uniti.

In 3 minuti e 24 secondi, la mdp segue un’automobile che poi perde spostando la sua attenzione sui giovani protagonisti, belli e innamorati.

Lo spettatore a questo punto è concentrato sulla coppia, che gli regala un momento di distensione, ma ecco che fuori campo si sente lo scoppio di una bomba. Stacco. Zoom sulle fiamme.

Bogdanovich realizza una serie di interviste a Orson Wells (con uno stile giornalistico invidiabile) e le pubblica le volume intitolato Io, Orson Wells (ed. Baldini &Castoldi Tascabili) e definisce la scena tra "le grandi riprese della storia del cinema".

Wells gli confida: "Mi è sempre dispiaciuto che ci abbiano messo sopra i titoli... è un peccato vedere delle scritte su qualcosa di tanto importante - tutta la storia è in quella ripresa di inquadratura".

Nell'intervista emerge la grande importanza che rivestono i tecnici e gli operatori all'interno del set. Dice Wells "chiunque può immaginare" delle belle riprese o delle inquadrature particolari, "ma poi chi le fa?"

Il discorso a questo punto diventa molto tecnico, e Wells analizza anche la differenza tra macchinisti europei ed americani. Emerge che in America gli operatori godono di una buona considerazione sociale a cui corrisponde un buon livello economico. Situazione completamente diversa in Europa, dove un "macchinista capo viene considerato solo un lavoratore manuale". Almeno questo accadeva all'epoca di Wells.

Speriamo che nel tempo le cose siano cambiate!

Bogdanovich chiede anche ragione dello zoom che al suo occhio esperto di regista sembra qualcosa di diverso. Ecco la seconda confidenza di Wells: è un skip-frame, uno zoom con fotogrammi saltati per renderlo ancora più veloce. "Come funziona?" chiede Bogdanovich. "Togli un fotogramma sì e uno no dalla ripresa" risponde Wells.

Successivamente, Bogdanovich chiede se secondo lui il pubblico si accorge di tutto questo lavoro, se riesce a cogliere l'assenza di stacchi e le scelte registiche. Tutto questo lavoro è visibile o resta solo nel subconscio delle persone?

La risposta di Wells è interessante: "si accorgono solo delle cose sbagliate, non ti pare? Se si accorgono di qualcosa, vuol dire che abbiamo fatto un errore alla regia".

Wells confessa anche che odia i virtuosismi: "mi schermisco sempre quando mi fanno i complimenti per la ripresa di apertura dell'Infernale Quinlan, perché è una di quelle riprese dove si vede il regista che fa la grande ripresa e secondo me la grande ripresa dovrebbe nascondersi un pochino".

Da queste parole sembra emergere un aspetto in comune tra Hitchcock e Wells: l'autocritica.

Tim Robbins in una scena del film "I protagonisti"
Tim Robbins. Fonte: internet

1992, Altman gira I protagonisti.

La scena iniziale è una staffetta tra personaggi importanti, secondari e comparse che vivono e lavorano dentro gli studios hollywoodiani.

Un piano sequenza che si muove tra di loro giusto il tempo per far capire allo spettatore che ruolo ricoprono o per far afferrare una loro preoccupazione, un obiettivo...

Uno di questi, per esempio, parla con il suo interlocutore del bellissimo inizio dell’Infernale Quinlan, permettendo una doppia “costruzione in abisso” (di cui parleremo in un altro post).

L’inizio del film, dunque, è tutto costruito sul metalinguaggio: i personaggi si muovono in un set, parlano di un film, analizzano una tecnica e nel frattempo Altman gira nello stesso modo, mettendo in pratica le parole dei suori attori.

Da Wells a Altman è evidente che è successo qualcosa: è sopraggiunta la modernità. I registi non devono più camuffare le loro tecniche, ma anzi le esplicitano e portano a galla anche le fonti di ispirazione.

Ci sono tanti altri autori che nel corso del tempo hanno utilizzato brillantemente questa tecnica, da Wyler a Kubrick, da Antonioni a Tarantino, solo per citarne alcuni.

Una scena del film "Arca russa"
Locandina del film "Arca russa". Fonte: internet

E come non ricordare il russo Aleksandr Sokurov che nel 2002 gira Arca russa con un solo vero piano sequenza realizzando forse l’antico sogno di Hitchcock.

In tutto questo percorso inarrestabile della storia del cinema è cambiata la tecnologia: le pellicole non hanno più una durata fissa e si può filmare ininterrottamente.

Sokurov gira in digitale con una videocamera Sony HDW-F900 realizzata appositamente per questa impresa.

Nell’era in cui la tecnologia ha reso possibile tutte le sfide, Iñárritu, invece, torna alle origini adottando il sistema utilizzato in Nodo alla gola, ma quello che per Hitchcock era un abile trucco per sopperire alla povertà dei mezzi, in Birdman è diventata una consapevole scelta stilistica.

Allora come scrive Marcello Walter Bruno sulle pagine di Segnocinema, che in questo mese dedica a Iñárritu un ampio approfondimento: “ogni montaggio proibito è un effetto speciale riuscito”.

I registi elencati fin qui sono entrati nella storia del cinema.

È il caso anche di Iñárritu?


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